BELLUNO andata e ritorno.

Io non ho mai conosciuto Aldo Marzot.

Il suo tempo su questa terra è scaduto ben prima che io nascessi. Non conosco il suono della sua voce o le espressioni del suo volto. Ma è un uomo a cui devo molto. Per cominciare devo a lui la mia esistenza. I miei genitori non si sarebbero mai incontrati senza l’Assoraider. Forse è a questo che penso mentre acquisto i biglietti del treno notte Roma-Padova ma era la sera di una giornata molto stancante, quindi non ricordo. Forse è più la curiosità che mi fa decidere di “perdere” quest’ennesimo weekend con gli scaut invece che con libri-amici-fidanzata-mare. Dopo tutto sono sopravvissuto al San Giorgio regionale di branca lupi, praticamente posso fare tutto.

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Di Marzot so qualcosa: so del suo passato nel GEI, so il suo nome di totem e che se lo è guadagnato da giovane, cercando i soldati caduti sul monte Cimone. Il pellicano, l’animale che si riteneva arrivasse a incidersi il petto per nutrire i suoi piccoli. Quando il treno si ferma a Termini il sole è ormai tramontato sulla città di Roma. Isso lo zaino in spalla e mi avvio sulla banchina. Inutile dire, chi è solito frequentare stazioni ferroviarie capirà, che ogni passo tra quelle grosse volte di ferro e cemento rievoca ricordi di avventure passate. I sorrisi di sempre che si salutano partendo assieme per il campo e gli abbracci lunghi di fratelli e sorelle diretti a casa dopo il sudore e la gioiosa fatica. Le lacrime di rover che saluta pensando di non rivederli più e i sorrisi di raider che sa di dover aspettare solo fino alla prossima scusa per riabbracciare le sue persone importanti. Le prime esperienze lavorative con il WWF, i cui campi-avventura partivano sempre con i bambini asserragliati da valige e genitori di fronte al binario uno. Ero maggiorenne ovviamente, ma solo ora che ripasso davanti al binario capisco che allora ero un bambino pure io. Non sapevo ancora nulla di metodo, di formazione, di gettarsi oltre l’ostacolo, di osare. O in realtà lo sapeva, ma in quel modo in cui sai che il sole sorgerà anche domani. Lo sapevo perché era parte di me, ma come?

Salgo sul treno notte. La signora dietro di me cerca di issare la sua pesante valigia con le sue esili braccia. Mi chino a darle una mano e lei mi ringrazia. Sono in abiti civili, quindi per il mondo non sono uno scaut ma un tizio qualsiasi, nessuno mi giudicherebbe se facessi finta di non aver visto le difficoltà della signora. Ma io mi sento scaut molto di più quando non ho l’uniforme addosso, perché senza uniforme ho una scelta: aiutare o non aiutare. E posso scegliere senza il timore di far fare brutta figura a tutti gli altri scaut.
Mi siedo al mio posto. Potrei scrivere al pc o ascoltare musica, ma ho lasciato a casa i caricatori… Se la mia Akela mi vedesse adesso mi rimprovererebbe come faceva quando ero solo una zampa tenera. Una vita fa. Guardo il signore davanti a me e penso che deve suonare strano a persone più anziane questo mio“una vita fa”, come quando i miei lupi mi dicono “Akela non ridevo così dai tempi dell’asilo”. Non avendo altro da fare e visto che gli scomodi sedili mi fanno svegliare ogni dieci minuti continuo a pensare. Ora potevo stare a letto a dormire, perché andare a quest’Indaba? È fuori mano, ci verrà poca gente, ci saranno lunghe cerimonie dentro cimiteri. Perché?

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Scendo a Padova tutto insonnolito e mi dirigo verso la banchina del treno per Santa Giustina di Belluno. Un ragazzo mi chiede se questo è il treno che va a Belluno e io gli rispondo di sì con un sorriso. Lui mi sorride di rimando, sorpreso: le persone non sorridono a quest’ora del mattino. Salgo sul secondo treno e mentre la terra fugge sotto di me mi godo il paesaggio. Quanto è bello il nostro paese. Le pianure, le colline, i fiumi, le montagne. Potrei guardarli per sempre e non stancarmene mai. Arrivo a Santa Giustina e mi fermo davanti alla stazione. Lì finiscono le indicazioni, ora devo trovare il posto. Tre strade partono dalla stazione, una a destra, una a sinistra, una al centro. Il mio istinto mi dice che percorrendo la grossa via centrale mi avvicinerò ad un bar in cui fare colazione e chiedere informazioni. Faccio il mio piccolo hike cittadino e dal bar passo ad una via secondaria che mi porta verso le montagne. Comincio ad aver sete quando trovo via Colonnelo Cumano, una strada in salita. Ovviamente. Solo lì sopra può essere la mia meta. Il paesaggio che mi attende non ha eguali al mondo: prato verde chiaro, sulla linea dell’orizzonte chiome di alberi e sullo sfondo le Dolomiti. Non ho mai visto nulla come le Dolomiti ed io ho visto il Kilimangiaro.
Sono arrivato con varie ore di vantaggio e i pochi organizzatori dell’evento sono sorpresi nel trovarmi lì di fronte alla struttura. Li aiuto nei preparativi e verso l’ora di pranzo arrivano gli altri. Il pomeriggio facciamo le nostre attività di branca. Ci confrontiamo, ci sfidiamo, ci prepariamo. Alla sera parliamo di libertà. Vi è un piccolo scontro fra chi, come me, crede che la libertà sia una dote innata che dobbiamo imparare a conoscere e a domare e chi crede che la libertà sia qualcosa di alto, di superno, a cui si deve aspirare. Chi sa con chi si sarebbe schierato Aldo. O forse non si sarebbe schierato, temendo di provocare il così detto “effetto vangelo” sul resto della platea.
Mi corico e mi viene in mente quei pochi mesi in cui fui vice al reparto. Mi dissi che dovevo essere un capo fantastico, il più possibile, soprattutto perché in quell’anno c’erano gli esploratori con più problemi che abbia mai visto. Problemi brutti, subdoli, che li fanno piangere. E non sono pianti di tristezza ma pianti diversi, strozzati, bassi, soffocati che si alternano a parole che sembrano esplodere fuori dalle loro bocche. Pianti che quando li senti posso cambiarti la vita. Allora giurai a me stesso che non avrei mai e poi mai smesso di migliorarmi, di cercare nuovi modi, nuove vie per aiutare questi ragazzi a crescere. Forse è allora che per la prima volta provai odio. Ognuno di noi ha un punto della legge raider che è la sua bestia nera. Per me è l’odio. L’odio è il motivo per cui non ho preso l’impegno raider. Perché Aldo? Perché non voglio liberarmi dall’odio? E se non lo voglio io nel mio piccolo, come hai potuto volerlo tu, tradito dall’impietosa guerra, tradito dai tuoi fratelli, tradito da questo mondo pieno di inganni? Vorrei chiedertelo Aldo, forse solo a te potrei rivolgere questo mio dubbio. A te a cui devo così tanto: la mia vita, la mia famiglia, la mia vera famiglia.
Uno scaut mi si avvicina. Il mio fratello più grande e attempato mi dice con gli occhi umidi di essere colpito del mio viaggio solitario dal Lazio al Veneto. Ringrazio un po’ imbarazzato. Non mi sembra di aver fatto chi sa cosa.
Ci spostiamo al cimitero di Belluno per la cerimonia alla tomba di Marzot. Il campo santo è molto bello: a metà tra il “cimitero-nel-verde” e “il cimitero-monumentale”. Io sono forse una persona un po’ disillusa, ma le cerimonie non mi fanno impazzire. Capisco che a molte persone servano questi rituali ma a me semplicemente non fanno effetto. Però le bandiere, gli occhi umidi, le parole, il testamento spirituale di Aldo “La battaglia della vita” letto a gran voce. Non male, davvero non male, e per dirlo io ce ne vuole! Perfino gli interventi dei delegati delle altre associazioni mi colpiscono per la loro “fraternità”. Il canto dell’addio che risuona nelle aule del cimitero riesce addirittura a farmi venire la pelle d’oca. Complimenti Aldino. E complimenti anche a Guido che mi fa addirittura tremare la voce. Però Aldo aveva già intaccato la mia dura scorza!
Le cerimonie finiscono e io mi siedo sul treno diretto a Mestre. Penso ad Aldo e a come ha sentito parlare di lui quelle persone che l’avevano conosciuto. Coraggio, sicuramente aveva coraggio il signor Marzot. Coraggio e comprensione del prossimo, il che gli dava una certa lungimiranza. Il nostro primo Raider. Ma le risposte ai mie quesiti? Come faccio senza quelle risposte, Aldo?
Cambio treno e prendo il freccia rossa diretto a Roma. Fa troppo caldo per pensare e i tre bambini della signora seduta di rimpetto a me fanno troppi capricci. Non mi è difficile individuare dei lievi difetti nell’educazione dei giovanotti ma pazienza, se la caveranno lo stesso. Spero. Prendo il taccuino e passo il tempo preparando le riunioni del resto del mese. Ora sono certo che non era la gratitudine che mi spinse ad andare ma la curiosità. Volevo risposte ma Aldo, dall’immagine attraverso la quale tutti noi lo abbiamo conosciuto, non mi ha detto nulla. Ha solo guardato con i suoi occhi da nonno saggio.
Era chiedere tanto? Un risposta dal primo dei Raider?
Un pensiero mi attraversa come un fulmine rivelatore quando il mio sguardo si posa sulla torre bianca di Termini. Da non so quale libro, film o fumetto della mia vita emerge un ricordo, una frase di cui non ricordo né l’autore ne il periodo, solo le parole.
“Un bravo capo non fornisce le giuste risposte, ma pone le giuste domande”
È questo quello che speravi Aldo? Che chi ti avrebbe seguito si chiedesse? Chiedesse i perché delle cose, delle persone, del mondo? Si interrogasse anche su quelle cose come l’odio, di cui non si parla, quelle cose brutte che è “meglio” fingere che non esistano? Volevi che chiedessimo, che ci interrogassimo, perché cercare è libertà. Cercare è osare. Specie quando la ricerca è difficile.
Io non ho mai conosciuto Aldo Marzot, ma di lui mi è rimasta una cosa. Forse la sola cosa che conta negli esseri umani. Quella cosa che non muore. L’idea, l’idea che genera domande, l’idea che spinge alla ricerca, l’idea che scuote le fondamenta del mondo, che lo innalza.
Liberi di osare, osare di essere liberi.
Prendo il telefono per chiamare la mia ragazza mentre scendo dal treno. Vorrei dirle subito tutto questo, ma il turbine di pensieri ancora mi rigira la mente. Mi serve tempo per fare ordine e poi magari mettere tutto su carta così che lei possa leggerlo e capire. Lei che non voleva venirci agli scaut perché sono stupidi. Lei che i pantaloni dell’uniforme le stanno male perché “sono troppo da maschio”. Lei che non mi avrebbe mai preso veramente in considerazione, quindi tanto valeva smettere di cercare di sembrare più fiero, più sobrio, più macho, e comportarmi come mi comporto di solito.

Fratello Falco